In questo delirante blog tenuto dal blogger meno costante della storia di questa piattaforma abbiamo spesso parlato di new garage, ci siamo confrontati, insultati, scambiati opinioni, insultati, proposto ascolti e delle birre talvolta, insultati. Ecco, diciamo che in questo podcast e quello che seguirà ho voluto tirare le fila del discorso cominciato ormai 5 anni fa su queste pagine virtuali, proponendovi una visione di questo nuovo garage inedita, piena zeppa delle contaminazioni che secondo me ha, quasi snaturandolo se volete, ma mostrandovi le sue viscere per quello che sono, senza troppa poesia.
Se seguite da un po’ questo blog saprete di certo che per questo trio californiano nutro una certa passione. Ci credo nel punk metal degli Zig Zags, non solo perché credo che unire due generi così antitetici sia già di per sé encomiabile, ma perché la loro musica, il loro rock, ha una potenza e un’efficacia incredibili.
Come avrete letto sopra sia il bassista che il batterista lasciano tutto solo soletto quel genio di Jed Maheu, il quale è già impegnato con altri progetti collaterali ma spero bene non voglia cancellare l’esperienza Zig Zags, per quanto il sound della band fosse straordinario non solo si può migliorare ma si può anche rinnovare.
Nel caso non aveste ancora recuperato il loro primo LP fatelo, senza pregiudizi, Jed Maheu è il miglior prospetto di una scena californiana che ha perso qualche pezzo (Jay Reatard e ora pure i Thee Oh Sees), che sta cambiando (il nuovo album di Ty Segall, la commercializzazione di Cronin, la psichedelia banalizzata di Jacco Gardner), ma che trova la sua miglior espressione in band “diverse” come Harsh Toke e Zig Zags.
Come se ci fosse ancora qualcos’altro da dire su questo album.
Come se un cojone qualsiasi dello sterminato oceano degli opinionisti del web, potesse aggiungere qualcosa alla già lunghissimaserie di elogi e stroncature che segnano questo monolite del rock.
Il tempo ha dato ragione ai Black Sabbath ma non per i motivi che la band vorrebbe.
Il primo album omonimo è più che un seme è un parassita. Per quanto i fan lo adorino (ma adorano anche “Mob Rules” e i dischi solisti di Ozzy, quindi sono esenti da qualsiasi giudizio razionale) quell’esordio fa proprio cagare. Due o tre riff convincenti, poca sostanza e mal suonata, testi da brivido. Ma cosa cambia da “Black Sabbath” a “Paranoid”?
I Black Sabbath sono una delle band più ridicole della storia, e forse anche per questo tra le più grandi di ogni tempo. Vestiti come dei satanisti texani, facce di impareggiabile bruttezza, tecnica musicale quantomeno raffazzonata, non sperimentano, non destrutturano, non fanno un cazzo se non, banalmente, infilare riffoni della Madonna uno dietro l’altro, con una tenacia che sfiora la demenza. Eppure…
Se in “Black Sabbath” erano fin troppo parodici, in “Paranoid” riescono a cogliere in modo assolutamente originale la paranoia della Guerra Fredda e della Morte in generale esorcizzandola a suon di riff e testi ben lontani dalle litanie hippie dalle quali si discostavano polemicamente.
Più che il successo di vendite è l’aspettoseminale dell’album che stupisce ed intriga.
Per il metal questo e “Master Of Reality” sono una fonte inesauribile di ispirazione, oggi insieme a Hawkwind e Blue Cheer i Black Sabbath sono tra le band di riferimento per tantissimi gruppi neonati.
Al contrario del power pop che tanto deve ai Beatles o all’hard rock di stampo zeppeliniano il metal (non cercato ma trovato) dei Sabbath sforna nuove leve del rockunderground(ma si può ancora dire underground? Sembra una parola bannata da qualunque rivista di musica) incredibilmente ispirate e mai retoriche al contrario del power pop che vive di riff ed esecuzione, o dell’hard rock che a parte due o tre band ristagna nella masturbazione.
Al contrario del solito power pop o dell’hard rock la vena sabbathiana è in costante evoluzione, passando dal doom all’ambient alla psichedelia, tocca persino il punk!
Che dire dell’album in sé, il riff d’apertura di War Pigs scandisce lo spazio con una inesorabilità gotica di straordinaria capacità espressiva, si presta alla ripetizione infinita come alla modulazione e alla progressione. Naturalmente non è nella diretta volontà dei componenti della band questa “apertura”, ma è ciò che avviene.
L’attacco di Paranoidè devastante e immortale. Potrebbe benissimo aprire un album degli Zig Zags e non sembrerebbe comunque anacronistica. Iron Man è come War Pigs e ovviamente Hand of Doom (eppure i riff sono talmente ispirati da donargli dignità pari), poi c’è Planet Caravan col suo andamento tetro e spettrale, mentre Electric Funeral è il momento più alto, quello dove l’apocalissi elettrica giunge alla sua forma estetica definitiva.
Al contrario del primo album i Black Sabbath non sembrano più parodie di una specie di gothic band con reminiscenze romantiche (e un pessimo poeta ai testi), qui le improbabili immagini di devastazione diventano reali, sostenute da una musica terrorizzante e potentissima.
Un album universale, un capolavoro.
Ah, dopo “Master of Reality” gli album dei Sabbath si alterneranno tra l’indecente e l’inascoltabile. So bene che molti di voi non saranno assolutamente d’accordo, ma avremo modo di parlare in un’altra recensione, promesso.
John Carpenter? Neil Marshall? Qualcuna di queste divinità può prendersi gli Zig Zags per musicarsi un bel film post-apocalittico? No perché questo trio californiano ha appena pubblicato il primo vero album rock monumentale del 2014, sarebbe anche il caso di sfruttarli finché freschi.
Che “Zig Zags” in potenza avesse le caratteristiche di un esordio con i fiocchi e contro-fiocchi lo si poteva immaginare, che l’ariettapost-apocalittica carpenteriana fosse presente l’avevano già in parte anticipato, ma questo album è davvero una vampata di sano heavy metal come non se ne sentiva da troppo tempo.
La cosa più bella è che questo heavy metalè proprio ignorante, cattivo, solo riff della Madonna ed effetti tamarrissimi (però non buttati a caso come la batteria elettronica in Heartbeat di Jerry Riggs), i testi hanno la giusta dose di goliardia ed epicità senza mai sprofondare in una delle due.
Tranquilli, non sto urlando al capolavoro, non ancora almeno. Ma presto verrà, vedrete.
Che dire della nuova intro a Braindead Warrior? Praticamente il pezzo rock più potente degli ultimi cinque anni, un misto di immagini tra Mad Max e Fallout 2 esplodono nella mente, se girassero un nuovo “Heavy Metal” (vi ricordate il film metal-porno del 1981?) questo sarebbe il fottuto pezzo d’apertura, con tanti saluti a Sammy Hagar e compagnia cantante.
Il ritornello di The Fog sembra già un classico, non so come spiegarmelo. Torna a tratti anche l’anima punk della band sommersa dai pesantissimi Black Sabbath. Per Magic potremmo anche fare lo stesso discorso, se non fosse che il riff sembra davvero uscito da “Heavy Metal” (inoltre finalmente potrò cancellare dalla mia mente il diretto collegamento tra la parola “magic” e Magik dei Klaxons).
No Blade of Grass l’anno scorso chiudeva “10-12”, la raccolta in musicassetta dei demo della band. Registrata come Dio comanda fa ancora più male. Riscopriamo da “10-12” anche la garage punkTuff Guy Hands e una bellissima Down the Drain, c’è Psychomania (irriconoscibile), I Am The Weekend e ovviamente Randy (il pezzo sulla loro “mascotte”).
Siamo sempre ben al di sopra della sufficienza per tutto l’album, anche nell’intermezzo sperimentale (Untitled) che ci prepara ad un finale col botto, Voices of Paranoid, il capolavoro psych metal della band.
Anche nella irrequieta California, dove si mescolano senza indugi doom e garage, il sound dei Zig Zags è unico. L’ha capito bene Ty Segall che ha co-prodotto questo esordio discografico, l’ha capito benissimo la In The Red Records, questi qui sono destinati a scrivere pagine indelebili del rock contemporaneo.
È incredibile come si perseveri nel coltivare il cattivo gusto. Perché ad un certo punto l’oggettività perde di significato, l’onestà intellettuale sprofonda dietro tecnicismi (sia di scrittura da parte dei critici che musicali) e si arriva ad accettare tutto passivamente.
Gran parte del rock che viene prodotto su scala mondiale oggi trova dei fruitori appassionati praticamente ovunque, grazie a quel marchingegno luciferino di internet. INTERNET! Lo spauracchio dell’industria musicale! INTERNET! Il terrore che naviga su fibre ottiche! INTERNET! La gioia di poter trovare porno per tutte le stagioni e band per tutti i gusti!
Oggi più che mai il ruolo del critico è necessario, ma oggi più che mai il critico è inutile. Perché esiste questa contraddizione?
La moltitudine di musica che si può ascoltare da YouTube e dai siti streaming spaventerebbe anche il più hungry degliappassionati (o il più foolish, ma l’unione delle due cose non fa un CEO di fama mondiale semmai un eroinomane) e delle volte riuscire ad orientarsi di fronte a cotanta offerta non è facile. Allo stesso tempo se ti spunta sotto gli occhi il nome di una band che non avevi mai immaginato che potesse esistere, perché perdere tempo per capire se possa piacerti tramite il giudizio del critico di fiducia se puoi ascoltarli gratis subito?
Ma per quale cavolo di motivo il mestiere del critico è diventato “consigliere della corte regale di Tal dei Tali”? Quello lo faccio io, che ho un blog del cazzo e mi permetto anche di insultare penne di “spessore” come Zingales (ma perché sono un cojone, mentre lui è solo una notevole ciofeca), ma il critico vero, leggasi anche “quelli che scrivono su Blow Up”, non è solo un fido amico a cui chiedi un bel disco per sconquassarti le budella, è un tipo che ha studiato e si è fatto il culo per spiegarti che non sono solo rumori e suoni casuali quelli che escono dalle casse del tuo stereo (o dalle cuffie attaccate al tuo lettore mp3 del cazzo).
Ma che c’entrano Kasabian e Black Keys? Ma la controversia è proprio lì! Due band discrete che troneggiano nei social, su YouTube, e anche nelle riviste che dovrebbero essere l’ultimo baluardo contro la mediocrizzazione (newspeak in libertà) del giudizio. Io m’incazzo quando sono tutti d’accordo, c’è poco da fare.
Sui Black Keys ci spendo di quando in quando due parole, e se le spendo è perché la band mi piaceva e non poco. Ma quando mi sento dire che il salto che c’è tra un “Rubber Factory” (2004) e un “El Camino” (2011) è un evidente segno della maturazione della band io sbarello. Ma come cazzo si può dire che dalla rabbia e dal furore di Grown So Ugly o dal riff di 10 A.M. Automatic una band si evolve con la struttura che urla BANALITÀ da ogni decibel di Little Black Submarine, o quella nenia preconfezionata per MTV di Gold on the Ceiling? Una volta la critica rock bastonava queste stronzate, oggi le appoggia, perché oggi fruibilità è sinonimo di qualità. Puttanate.
E i Kasabian? Mi dite per piacere quali sono i punti di contatto tra il primo album di Tom Meighan e Sergio Pizzorno e uno qualunque degli Oasis? Questo lo chiedo perché da anni ci fracassano i coglioni con questo paragone costante tra Oasis-Kasabian che sta in piedi giusto giusto per qualche pezzo di “Empire” (2006) e poi crolla ineluttabilmente. Sarà che tutti sanno che le due band si ammirano a vicenda e critici stanchi del proprio lavoro invece che ascoltare con cognizione di causa “Kasabian” (2004) hanno buttato lì due stronzate?
Ma ve lo ricordate “Kasabian”? Un album commerciale, certamente, ma dignitoso, con una ricerca nel sound interessante, naturalmente scontata e banale ma quantomeno personale. Reason Is Treason era un pezzo con i coglioni (ancora di più nella versione “nascosta” dopo U Boat), ma anche i suoni sporchi di Club Footerano accattivanti. Un album quadrato, tutto d’un pezzo, con una estetica ben definita.
Poi la rivoluzione, un “Empire” acido, a tratti addirittura acustico, con la sofferta progressione di The Doberman, che qualcuno dovrebbe spiegarmi perchè non vale mille volte la più banale e ridicola Little Black Submarine dei Keys. Ma anche la malinconica British Legion, molto Oasis negli intenti, risulta infine ben più intima di qualunque pezzo degli Oasis, molto più autentica perché meno elaborata.
Oggi queste due band sono quanto di più lontano dall’interessante ci sia nel mondo musicale. È una tragicommedia quella di Kasabian e Black Keys, schiavi della propria immagine, profondi come una pozzanghera, merce di scambio nel flusso continuo di dati pirata.
Fever da “Turn Blue” (2014), ultima fatica dei Black Keys, è un prodotto che in una rivista seria di rock undergroundnon verrebbe nemmeno nominato, i critici dicono che in questo album non ci sono le hit del precedente per scelta, ma non capiscono che è solamente il prodotto ad essere ancora più mediocre del precedente. Forse mi sto lasciando trasportare eccessivamente direte voi, può darsi, ma il rock psichedelico di Bullet In The Brain vale davvero di più degli Harsh Toke? Voi mi direte, giustamente, che sono band con intenti diversi, ma sempre di rock si parla, e la psichedelia con tanto di riferimenti agli anni ’70 ci sono, e allora perché Rumore non mette in prima pagina band dello stesso genere dei Keys ma con qualcosa da dire?
La cosa bella è che album come “Turn Blue” o “48:13” (2014) dei Kasabian, sono album che non dicono un bel niente, è la solita musica che non cerca qualcosa di più alto del solito riff, di una melodia d’effetto o anche di stupire tecnicamente il musicista in ascolto.
Oggi più che mai riprendere gli anni ’70 per dire qualcos’altro è attuale, il Sun Ra ripreso da alcune band psichedeliche italiane si combina perfettamente con il mercato di Porta Palazzo (li nomino sempre ma non li recensisco mai, prometto che presto mi rimetterò in pari con La Piramide Di Sangue), il Syd Barrett dei Thee Oh Sees svela paranoie o annebbia i sensi di una società in crisi non solo economica, c’è la rabbia borghese di Ty Segall, il punk pop nevrotico di Jay Reatard così autentico, i riff post-apocalittici degli Zig Zags che riprendono le immagini di Carpenter e il Neil Marshall di Doomsday senza citarli direttamente, questo è grande rock, quello che dovrebbe sostare in quelle riviste e in quelle librerie di iTunes o playlist di YouTube di chi si dà un tono, di chi “ascolto rock”.
Il rock è un modo diverso di vedere le cose di tutti i giorni e riscoprile di nuovo, non la costante ricerca di una invenzione melodica, tecnica, linguistica o banalità del genere.
“Brainded Warrior b/w So Stoned” è il nuovo 7″ della skate band da Los Angeles, dopo la furia del primo singolo ora anche quella sana vecchia vena punk-demenziale cara a questi tre mascalzoni. Al contrario di Brainded Warrior stavolta non è registrato con l’aiuto del buon vecchio Ty Segall, per concludere credo sia inutile ribadire quanto sia ultra-figa la copertina diKeenan Keller.
Vi lascio il link della pagina bandcamp dove potrete ascoltare fino alla sfinimento i favolosi riff di ‘sti stronzi: http://zigzags.bandcamp.com/
Và, vi lascio anche ad un set completo registrato in una “Red Light Session” della Converse:
“Road tards, rat milk, magic frogs and motorbikes. ghost pirates, trailer park babysitters, king kong bundy and werewolf santas. nwobhm, early metallica, the wipers, budgie and bobby soxx. it ain’t retro, it’s total fucking recall. get me off this dying rock. escape from la while you still have the chance. over.”
—Randy 2024
Lo so che sto trascurando decisamente questo blog, ma c’ho delle cose, comunque conto di cazzeggiare meno e scrivere di più. I promise, and promise is a promise.
Beccatevi il nuovo singolo dei mitici Zig Zags, una roba tipo psych-punk-metal post-apocalittico, so che è una definizione dannatamente “alla Blow Up”, ma tant’è…
Personalmente dopo l’ascolto mi sono sentito permetà deluso e per metà esaltato. Speravo che la band di Los Angeles si spingesse verso la psichedelia (qualche intuizione nella collection “10-12” si era sentita, e che intuizioni!), ed invece sembrano seguire l’andazzo dettato dalla In The Red in California, niente di male, anzi, il sound di questi tre scalmanati rappresentanti dello skate punk (lo dicono loro mica io) ne giova assai come peraltro avevamo avuto modo di ammirare nel precedente 7″ “Scavenger/Monster Wizard“. Forse la mia sete di psichedelia non è stata assetata, ma ciò non toglie che traKadavar, Harsh Toke, Ty Segall, Thee Oh Sees (e varianti degli stessi) e qualche altra band che sciorinerò in codesti giorni a seguire, gli Zig Zags si ritagliano uno spazio bello grosso.
P.S.: il Randy della citazione è il tipo in copertina, praticamente l’Eddie della band.
Credete che i festival come Coachella siano solo per fighette che si bagnano ad ogni uscita degli Arcade Fire? Quando pensate alla California invece delle belle spiagge e delle tette vi vengono in mente feedback lancinanti, molta birra e tante, tante belle tette? Beh in questo caso gli Harsh Toke sono la band che fa per voi.
Capitanati da due skater famosissimi in patria (c’è Justin “Figgy” Figueroa alla chitarra, al basso Richie Belton) gli Harsh Toke non si pongono di certo chissà quali seghe mentali, o rasponi materiali, quando si approcciano al rock, il loro sound è un mix decisamente riuscito di Hawkwind, Blue Cheer, prog classico e jam infernali, non lontani dai riff potenti e decisamente vintage dei Kadavar. Non è un caso se l’etichetta sia la stessa, questa Tee Pee Records, piccola e misconosciuta, ma con qualcosa da dire in mezzo a tutto questo revival ’60-’70 californiano.
Chiaramente parlare di revival per Thee Oh Sees, Ty Segall, White Fence, Kadavar, Blue Pills e via discorrendo è riduttivo (anche se in alcuni casi, come nei Blue Pills, è fin troppo esaustivo), ma non percepire Syd Barrett nei Thee Oh Sees significa esser sordi (mentre ridurli solo a quello significa esser scemi).
Cosa c’è da dire sulle quattro tracce che compongono “Light Up and Live”? Pochissimo.
Da un certo punto di vista la mancanza di un concetto alla base di questi album può far storcere il naso a qualcuno. Perché continuare con viaggi psichedelici nel 2014, sopratutto se privi di importanti novità? Beh, diciamo pure che qualche nota differente gli Harsh Toke ce la mettono in questo album. Intanto la struttura dei brani, fluida, ineluttabile, più che ricercare una perfezione (King Crimson) lascia scorrere le idee, tramortendo. Certamente è fluida anche la struttura di un “Alpha Centauri” dei Tangerine Dream, come di qualsiasi album degli Acid Mothers Temple, ma i giri di basso ammiccanti ai Black Sabbath, i riff che volano fino a perdersi nella stratosfera (i già citati Hawkwind), la grezzità del suono lontano dal perfezionismo tecnico tipico del prog fanno di “Light Up and Live” un ponte di contatto tra i rimandi agli Spacemen 3 negli Zig Zags e le violente derapate strumentali nei Thee Oh Sees (Lupine Dominus).
Rest in Prince e Weight of the Sun sono unite nella musica, ma la band di Figueroa non ci dà punti fermi o momenti di riflessione, preferisce frastornarci fino all’inverosimile. Ma il vero schiaffo arriva con la title track, dieci minuti che già a metà esplodono con una potenza devastante per poi prolungarsi fottendosene altamente della tensione, delle regole, del buon senso e della fruibilità, ma ha un motivo tutto questo o è della musica semplicemente senza idee?
Il senso c’è, ed è un po’ disperso in tutte le pubblicazione californiane (e quelle in linea col sound californiano) contemporanee, il bisogno di creare un muro che invece di dividere inglobi tutto. L’alienazione degli anni ’60 che si poteva provare negli Acid test (mentre i Grateful Dead stordivano folle di fumati) nasceva con premesse del tutto diverse da quella delle odierne furiose e psichedeliche sessioni di jam degli Harsh Toke, i muri che propongono le band di oggi essenzialmente sono espressione di un menefregismo generazionale devastante.
No brains inside of me, no brains inside of me ripetono con leggerezza i Thee Oh Sees in Maze Fancier, ed è quello che urlano anche Ty Segall, gli Zig Zags e questi Harsh Toke. La leggerezza non passa più dalle canzonette, dalla melodia (facile o complessa che sia), ma dalla alienazione da un mondo allo scatafascio per cause che non riusciamo a capire o che proprio non vogliamo capire, questa generazione, la mia generazione, definita senza valori né cervello né speranze trova la sua perfetta espressione musicale proprio in questo nuovo ambiente californiano.
In certe declinazioni ci sono molte similitudini nel fenomeno italiano del momento, la Psichedelia Occulta, anche se con certe differenze che mi fanno preferire quest’ultima al rock californiano. La meravigliosa trasposizione del mercato di Porta Palazzo dei La Piramide di Sangue, che dalle impressioni di un album straordinario composto da numerosi artisti come “SUK Tapes and Sounds from Porta Palazzo”, tirano fuori un pezzo per il loro ultimo lavoro come Esoterica Porta Palazzo, dimostrando quanta profondità ci sia in questo movimento di cui molti parlano, ma che nessuno sembra voler criticare in modo più professionale e approfondito. Più simili al sound californiano ci sono gli In Zaire, per esempio.
Vabbè. come la solito perdo il filo del discorso e finisco a parlare d’altro, ci vuole pazienza…
Che dire, vi consiglio questi Harsh Toke, assieme al disco vi consiglio di sorseggiare della buona birra, se siete pigri come me e gli album ve li fate portare a casa allora vi consiglio (e tre) Beerkings per le birre, un sito allucinante che ho conosciuto da poco e che sto amando più della mia ragazza. Ci sono pure i voti e le recensioni delle birre, il che vi fa sembrare molto più raffinati di un drogato qualsiasi.
Lo Consiglio: a tutti quelli che “Doremi Fasol Latido” non fa per niente cagare, che adorano le jam infernali con chitarre scordate e la birra artigianale. O anche solo un lattina di Heineken.
Lo Sconsiglio: se siete dei progger convinti non è roba per voi, insomma in questo blog i Dream Theater non erano buoni prima e ora fanno schifo, son sempre stati una merda masturbatoria.
Link Utili: cliccate QUI per la pagina Bandcamp degli Harsh Toke con due jam da 21 minuti ciascuna (!), cliccate invece QUI per il sito della Tee Pee Records, se volete godere delle splendide sensazioni di Esoterica Porta Palazzo allora cliccate QUI.
E ora qualche video:
una devastante live dei Toke
qui con Lenny Kaye (!!!) che suonano Gloria (!!!)
e infine qualche allucinante lacchezzo con lo skate di Figueroa
Non hanno nemmeno pubblicato un solo sudicio album, eppure mi fanno impazzire.
Quando una band unisce garage, punk, psichedelia e metalsenza fare un pastrocchio (o della fusionpseudo-intellettuale) per me vuol dire che ha le carte in regola.
Il ritorno progressivo al garage “esoterico” (e passatemela, dai) alla Nuggetspartito dalla California non è semplice revival o una moda. Lo sta certamente diventando, basta considerare la sterzata commerciale di Mikal Cronin o la nascita di nuove band copia-incolla come gli Hot Lunch (quelli dalla Pennsylvania non quelli glam metal da San Francisco) ma la furia del rock autentico, fatto di sudore e feedback, resiste strenuamente alla base.
Queste band non sono mosse come nei ‘60s dalla voglia di spiccare il volo seguendo il nuovo sogno Beatles (sarà stato almeno il 96% delle band), o magari proprio contro la distopia Beatles (vedi iMonks), perché oggi non c’è un modello o un nemico, oggi si combatte contro il nulla.
Sono un trio gli Zig Zags, voci acide, chitarre distorte che spaziano dall’hardcore punk fino agli Spacemen 3, batteria spesso martellante, ipnotica. Cosa c’entrano con questa guerra al grande nulla di mia totale invenzione?
Quando la politica repressiva di Reagan negli USA si fece pesante l’hardcore sembrava l’unica risposta possibile (anche contro la plastica zuccherosa che radio e televisione di stato promulgavano), ma in quel caso c’era un nemico da combattere e non c’era nemmeno troppo tempo per pensarci sù. Si imbraccia una chitarra e si registra con gli amici in garage o nella palestra della scuola, era vero rock perché spesso ignorava le regole base per suonare decentemente, facevano le cose così come venivano, lasciandosi trascinare dalla rabbia che a quel punto divenne forma. Per questo molti album del periodo sono straordinari, perché trascendono la fruibilità per accettare la sostanza, non c’era una ricerca estetica a priori nel tentare di riprodurre la sensazione di repressione, ma era questa stessa a visitare le band e a farsi strada nelle pessime registrazioni di buona parte della produzione hardcore.
Il garage contemporaneo, quello senza un nemico ben preciso, trova la sua dimensione ideale nell’interiorità. Non denuncia, semmai ammalia con brusche virate drone e un abuso di ritmi martellanti, costruendo un muro di rumori lancinanti quanto rassicuranti.
Ty Segallè un po’ il ragazzo di città che ha voglia di sfogarsi, mette sul piatto buona musica ma senza chissà quale profondità, i Thee Oh Seessono la band che hanno sondato meglio finora le possibilità di questo nuovo garage sprofondando nella psichedelia, gli Zig Zags, a mio modesto (modestissimo) avviso saranno quelli che lo eleveranno definitivamente.
Unione ideale tra le jam catastrofiche e anarchiche degli Harh Toke, meno puerili dei Criminal Hygiene, restando nella classica forma-canzone gli Zig Zags combattono questo vuoto che ci circonda senza lasciare un attimo di respiro all’ascoltatore, e lo fanno con una propria personalità.
“10-12” è una raccolta uscita in un numero limitato di musicassette e in formato digitale su Bandcamp, sono spizzichi e bocconi di una band in fase di crescita, dove non mancano le banalità come i colpi di genio.
C’è ovviamente una buona parte di garage punk senza pretese (se non quella della fruibilità), parliamo di Randy, Tuff Guys Hands, Turbo Hit (gran bel singolo, fra l’altro), Down The Drain, Eyes, I Am The Weekend, No Blade of Grass, che poi altro non sono se non la base che sorregge la struttura sulla quale gli Zig Zags svilupperanno il loro sound dal 2012 ad oggi.
Ma il ritmo, la distorsione, quell’helter skelter autistico che inconsapevolmente è la risposta alla desolazione quotidiana (vuota ormai di qualsivoglia senso e futuro) si trovano in Human Mind, Love Alright, Scavenger e Monster Wizard. E aggiungiamo a questo elenco anche la recente Voices of the Paranoid, una versione disillusa e acida dei Thee Oh Sees.
Probabilmente sono in errore nel contestualizzare una musicassetta composta perlopiù di banale garage punk in un discorso così ampio e difficile da decifrare quali sono i nostri tempi, la contemporaneità. O forse no. Fatto sta che qui non si sente la mancanza del Vero Genio come negli album di Ty Segall (sempre in equilibrio tra convenzionalità e grande rock), o quella di una opera davvero compiuta nei Thee Oh Sees (anche se con “Carrion Crawler/The Dream” ci sono andati vicino), la strada che hanno imboccato gli Zig Zags sembra una di quelle che lasciando il segno, se non nella musica quantomeno in chi la ascolta.
Lo Consiglio: a chi sta amando questa California e i suoi protagonisti, ma anche a chi cerca del punk decente o della psichedelia d’annata senza per forza cadere nel revival.
Lo Sconsiglio: a chi crede siano una band per intellettuali (anche se dalla mia recensione sembrano potenzialmente la band preferita da Heidegger), a chi cerca nel punk qualcosa di più Clash piuttosto che della fottuta psichedelia.
Link Utili: per la pagina Bandcamp clicca QUI, per l’altra recensione che ho scritto sulla band invece QUI.
[I lettori attenti si saranno accorti che è sono scomparsi i voti e i vari Pro e Contro che mettevo alla fine di ogni recensione. Ho deciso che era meglio così.]
Senza infamia e senza lode, lo collocherei in questo momento della sua carriera tra un Syd Barrett smorto e il più ispirato John Lennon, molto dei contemporanei The Mallard e White Fence e difatti anche lui come questi ultimi fa parte della rinascita (se mai c’è stata una “morte”) della psichedelia americana che ha sede fissa in California.
Jeffrey Novak è praticamente sconosciuto in Italia se non per la sua parentesi Cheap Time, mediocre tentativo di unire glam a garage come un tempo. Questo tizio rinasce in tempi recenti lasciando perdere definitivamente la vena glam (davvero, faceva schifo) e lasciando il garage ai vai Ty Segall e Crystal Stilts (che è in buone mani, fidatevi), protendendo per una psichedelia spicciola.
Lontano dalla magnificenza spesso dichiaratamente masturbatoria dei The Black Angels, lontanissimo dalla potenza e dalla genialità diThee Oh Sees e Zig Zags, è certamente più affine alla forma-canzone alla White Fence, ma se il caro Fence è comunque ancorato ad un concetto (forse) un po’ posticcio della psichedelia, Novak dal canto suo è molto vicino all’ultimo Barrett del ’70, il che perlomeno ci fa capire che il ragazzo assume dosi di rock ben tagliate.
In soldoni il tizio ci sa fare e nel 2012 pubblica questo “Baron In The Trees” (credo ispirato in parte al celebre romanzo Il Barone Rampante di Italo Calvino, che se non avete letto siete brutte persone) che finalmente sono riuscito ad acquistare ieri, e che intende essere un po’ la summa del percorso di Novak e forse la prova della sua definitiva maturazione.
Quest’anno è uscito “Lemon Kid”, ma, ehi, appena avrò il grano vedrò di procurarmelo, intanto mi cucco/vi cuccate questo. Novak non è un genio della musica, e di certo non è tra gli artisti di punta di questa nuova ondata garage-psichedelica che mi sta appassionando a livello discografico come niente nella mia vita, la sua psichedelia chiede poco e dà pochissimo.
In Baron la fa da padrone l’acidità di Barrett (presente sopratutto nella performance vocale), ma la musica è molto pop prima ancora che rock. Eppure nella sua confezione abbellita di archi (Parlor Tricks) di rimandi floydiani esagerati, di pezzi impacchettati ad arte (Watch Yourself Go) di hit accattivanti (Here Comes Snakeman) di tutti quelli che invece di prediligere la via più “estrema” della psichedelia, fondendola con drone e garage, si sono buttati su un’idea più melodica e modesta, Jeffrey Novak ne risulta senza alcun dubbio il più gradevole.
Si merita una pacca su una spalla, il tizio.
“Baron In The Trees” per quanto mi riguarda è involontariamente un classico. È un metro, un modulo, come cristosanto posso dire… ecco: un esempio di cosa si è preso dal passato e di come lo si riutilizza oggi negli anni ’10 del 2000.
Al contrario di tutte le band psichedeliche principali di questo momento Novak viene dal Tennessee, più precisamente dalla rigogliosa capitale Nashville, patria del country. E già da qui si può capire come proprio il buon Novak riesca a dare il suo meglio entro i 4 minuti (meglio se 3 o due e mezzo), con poche note ben posizionate, una melodia sempre orecchiabile e il tutto registrato decentemente.
Sebbene sia un po’ più acida la title track che chiude questo brevissimo album (anche troppo, solo 9 pezzi per un totale che sfiora la mezz’ora!) il resto si libra nell’aria con leggerezza e una buona dose di maturità.
Un ottimo passatempo e un simpatico acquisto natalizio. Lo consiglio a chi tra un feedback e l’altro vuole un attimo riposarsi e tenere qualcosa di decente di sottofondo. Non c’è bisogno di ascoltarlo con attenzione, va giù liscio come il vino che comprate al Penny Market, senza infamia e senza lode.
Pro: scrollatosi di dosso il glam e buttandosi in Barrett, Novak ha trovato se stesso e della buona musica.
Contro: nessuna pretesa di alcun genere, un disco che non ha niente da dire.
[Sì, lo so, non è una recensione vera e propria, e quasi una presentazione, ma cazzo, ero in uno stato d’animo trascendentale allucinatorio mai subito prima!]
Quando mi sono ritrovato ad ascoltare il loro ultimo pezzo, uscito su bandcamp nel consueto formato 7’’ da punk rocker sfigato, sono saltato sulla sedia.
Ho pensato: ci siamo!Che gli Zig Zags fossero sulla strada giusta era già chiaro a quei quattro asociali tipo me, un sound potentissimo perfettamente in linea con il nuovo garage americano, ma qualcosa di più ha toccato questi ragazzi di belle speranze.
Non so bene cosa cazzo scrivere, perché li sto ascoltando a tutto volume proprio in questo momento, le mie casse ruggiscono di un rock spaventoso ed io sono chino su questo cazzo di quadernino e non capisco, non non non non non [seguono frasi sconclusionate qui censurate]
La mia testa è del tutto franata, i riff distorti all’inverosimile, un low fi non più nostalgico ma dettato da un imperativo categorico che ha trovato la sua dimensione in un determinato spazio metafisico tra garage, drone e psichedelia! Se i Fuzz riprendono i Blue Cheer e i Thee Oh Sees sono il nuovo ideale psichedelico, gli Zig Zags evolvono il garage rock contemporaneo slegandolo definitivamente col passato (altro che il compitino applaudito dalla critica di John Reis!).
La loro carriera probabilmente comincia attorno al 2009-2010, la loro prima pubblicazione risale a ottobre dell’anno scorso, sempre un EP da 7’’ dal sound molto drone e psichedelico. “Monster Wizard/Turbo Hit” è il rumore puro alla “Metal Machine Music” finalmente ritornato alle sue radici rock, controllato e addomesticato senza però perdere la sua forza primordiale.
Monster Wizard è mille volte più potente di qualsiasi cosa uscita in ambito garage, gli Zig Zags hanno probabilmente raggiunto la massima vetta in questo senso. Il sound degli Stooges e degli MC5 incontra finalmente i feedback lancinanti di Ty Segall e la musica drone, passando per “Carrion Crawler/The Dream” dei Thee Oh Sees. Nemmeno i Thee American Revolution raggiungono queste vette di devastazione sonora.
Già Turbo Hit sembra più “umana”, più “normale”, ma è solo perché ormai Monster Wizard ci ha aperto la mente a un mondo infernale di rumori e distorsioni talmente rock da far impallidire il 99% della produzione contemporanea.
Finalmente il 3 gennaio di quest’anno pubblicano il loro primo album, che per me è stato una mezza delusione al primo ascolto, ma cazzo, era solamente il primo ascolto. “10-12” come si può intuire è una raccolta di tapes della loro finora breve ma straordinaria carriera.
Un fastidiosissimo rumore di sottofondo che mi insegue fin dalla breve Psychomania mi avverte subito che d’ora in poi le cose saranno un po’ diverse dal solito.
Prometto che farò presto una recensione di questo album, ma finora sono riuscito solo a subirlo passivamente, mi annichilisce del tutto.
Sempre nel 2012 avevano anche pubblicato un breve LP con Iggy Pop, “If I’m Luck I Might Get Picked Up”, la cosa migliore che abbia mai sentito cantare all’Iguana dai tempi di “Fun House”.
In realtà, come scoprirete da voi, l’ultimo 7’’ uscito dei Zig Zags sono due singoli già usciti tempo prima, uno nel disco sopra citato e uno nella loro prima pubblicazione ufficiale, si intitola infatti “Scavanger/Monster Wizard”.
Ma allora, se sono pezzi che ho già sentito tempo prima, perché saltare ancora una volta dalla sedia?
Perché gli Zig Zags rischiano di finire tra le mie band preferite di sempre, e forse non soltanto tra le mie.
Pro: la miglior band garage contemporanea.
Contro: se non vi piace la drone, il garage rock, la psichedelia, cazzo ci state a fare in ‘sto blog ancora non l’ho ben capito.
Pezzo consigliato: sono solamente due e molto brevi, non essendo un album, quindi direi che potete fare lo sforzino di cuccarveli tutti e due.