È morto Lou Reed

Beck+21

Chi ha davvero cambiato il rock, non tecnicamente – ovvero quei cambiamenti che non cambiano proprio un cazzo, ma nella sostanza, nel messaggio, sono pochissimi eletti che si possono contare sulle dita di una mano.

Tutte quelle inutili classifiche con “le prime cento band” sono sfilate pop di cento inutili complessi che hanno prodotto dischi notevoli, per bellezza e anche autenticità, ma che in una intera discografia non hanno avuto il peso di una singola canzone contenuta in “The Velvet Underground & Nico”.

Diffidate da quegli osceni libri che si intitolano “500 dischi fondamentali”, “2000 album imprescindibili”, inutili compendi di critici in piena crisi auto-erotica, i quali dato che ormai le gare a chi piscia più lontano o ce l’ha più lungo sono diventate desuete allora fanno a chi ha ascoltato più dischi. Gente più ridicola di questa è solo quella che queste baggianate se le compra. E io l’ho capito dopo averne comprate tante.

Lou Reed è stato uno dei pochi ad essere davvero fondamentale, imprescindibile, un profeta che semplicemente voleva tutta l’attenzione su di sé.

Non mitizzate Lou Reed. Un brutto carattere, un idiota borghesuccio tutto orgoglioso del suo nulla, conobbe John Cale che era praticamente analfabeta. Ma è anche per tutto questo che è stato, è sempre sarà, tra i più grandi.

E per Dio, non ricordatelo per “Berlin”, non piangetelo sulle note di Walk on the Wild Side, o sui terribili “pow pow pow” di Satellite of Love, ma a ritmo di I’m Waiting for the Man, quando non era ancora Lou Reed ma un semplice drogato qualsiasi, col chiodo, ad aspettare una nuova dose per tirare avanti, e per sognare.

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